L’uva dell’ira

di Daniele Mattei

“Furore”
di John Steinbeck
Titolo originale “The grapes of wrath”
traduzione di Carlo Coardi (1940)
pp. 474
cm. 20
Milano, 1996.

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!!!Attenzione SPOILER!!!

Mi racconta Giorgia Prosperi che questo era uno dei libri preferiti di Aldo. Noi due non ne abbiamo mai parlato. Per la verità il tempo trascorso insieme è stato così esiguo, ci siamo incontrati per la prima volta sul finire del 2002 e non è più tra noi dal maggio del 2005, che orfano della sua presenza cerco di assorbirne il percorso culturale a partire dai libri che ha amato. In questo momento sono senz’altro nel posto giusto. Inoltre la nostra vita insieme ha avuto la storia di Montalto e della Maremma come fulcro quasi assoluto: San Paolo della Croce, vita e leggenda di Tiburzi, l’influenza della Malaria nello sviluppo del territorio. Avevamo il Campanone, l’odonomastica, le ricerche d’archivio, la musica popolare e i poeti a braccio, il “Lunario” di Cattabiani, “Paesi Etruschi” di Lawrence, gli incontri e le telefonate con Romualdo Luzi, Giuseppe Giontella, Alfio Cavoli, Antonio Mattei quello della Loggetta di Piansano. Lo so è molto ma a me sembra sempre troppo poco.

“Furore” di Steinbeck è l’ultimo libro che mi ha sciolto in un pianto consolatore. Io stavo lì, nell’ultima stamberga ricovero di un’odissea miserevole insieme a quei poveri cristi, finché la divinità materna decisa a compiere il miracolo ci ha dolcemente allontanati all’esterno. Lì fuori, dopo migliaia di desolati chilometri e feroci umiliazioni, abbiamo sentito il calore pervaderci. Sotto la tettoia, sul sacrario della Mater Matuta, abbiamo sentito tra le fredde gocce di pioggia il calore della vita, il sacro che ci unisce.

Pubblicato nel 1939 e tradotto in Italia nel 1940 con le censure del Regime fascista è il romanzo simbolo della Grande Depressione americana, “romanzo di propaganda politica, pieno di prediche e interludi sociologici, condotto in chiave epica”. Quegli interludi saggistici spezzano molto il tono dell’opera, in qualche misura sollevano dalla lenta ed inesorabile catastrofe di cui si percepisce l’incombere, danno anche la misura del lavoro dell’autore sulla condizione degli spiantati degli anni Trenta che è estremamente approfondito e rigoroso.

Nella libreria di casa, in una collana di classici del Novecento di cui spesso esploro i dorsi, l’ho individuato e poi letto perché incuriosito da una citazione colta in altra lettura. Naturalmente il libro è presente anche in questa sala, in un’edizione Bompiani del 1997 ancora con la primitiva traduzione di Carlo Coardi del 1940. [Dal 2013 esiste una nuova edizione della medesima casa editrice con traduzione di S.C. Perroni che promette un più meticoloso lavoro sui diversi registri del testo reintegrandone altresì le pagine tagliate.]

Dunque Aldo amava questo libro in cui la famiglia Joad muovendo su uno scassato furgone in direzione California portava dietro di sé quella miseria che è un marchio d’infamia. [Non riesco ad evitare di pensare ad “America primo amore” di Mario Soldati].
Ci avrà visto i volti dei lavoratori stagionali della Maremma, forse qualche similitudine con i primi coloni della Riforma Agraria. Uomini, donne e bambini alla ricerca di migliori condizioni di vita. Ci avrà sentito la sacralità della vita e della sapienza arcaica dello spirito femminile che di essa è vestale.