San Sisto, il custode della memoria
Raccontare lo spirito di un luogo significa ascoltare, percepire, vedere oltre lo sguardo. Non è solo lo spazio ma anche il suo contorno. Non è solo un’immagine e non può essere solo un edificio. È fatto di luce, di suoni, degli orizzonti possibili. Il “genius loci”, lo spirito del luogo, è dotato di una serie di caratteristiche che vanno oltre le sensazioni primarie. In qualche modo ne segnano anche le vicende, nel tempo. Per questo, in questi giorni lenti e silenziosi, non poteva che riemergere lo spirito di San Sisto. E proveremo a raccontarlo parlando della sua storia e vedendo alcune immagini, alcuni particolari orizzonti.

L’Archivio Storico Comunale
Una delle sale custodisce i registri più antichi dell’Archivio Storico. Oggi è uno spazio accogliente con due diverse vedute: da una parte il chiostro dall’altra i campi coltivati, ulivi che nascondono la Statale Aurelia e all’orizzonte il Mar Tirreno. Questo Luogo oggi è il custode della memoria di Montalto: nomi di uomini, conteggi di capi di bestiame che sul nostro territorio hanno pascolato, conti, scontri sono stati vergati su carta a volte in modo solenne ed elegante altre volte furiosamente e di malavoglia. Tutto conservato nelle pagine dei registri stipati in questi armadi.
Questo luogo si trova in un edificio che ospita anche la biblioteca comunale, i servizi sociali ed ha sale lettura e multimediali, sale in cui presentare libri, mostre e convegni, questo luogo è San Sisto ed ha molte storie da raccontare.
Se potessimo mettere in moto la macchina del tempo, vedremmo un ospedale, con personale medico e suore; prima ancora infermieri e un cappellano dei Fatebenefratelli e, ancora più indietro nel tempo, potremmo scorgere dei frati di Sangiovanni Decollato, anno 1709, sempre intenti alla cura dei malati: letti, un laboratorio galenico. Nel Seicento e nel Cinquecento, invece, in queste ampie stanze albergava solo il silenzio e la preghiera: era un convento. Poi, con un altro balzo indietro di due secoli, su questa terra vedremmo una sola, imponente chiesa: espressione della ricchezza raggiunta da Montalto e i Montaltesi nell’Età Comunale.
Sappiamo che a partire dal XII secolo il piccolo Castrum Montis Alti, ebbe uno sviluppo straordinario… un’età dell’oro che fu accompagnata da un’eccezionale crescita demografica e, di conseguenza, urbanistica. Scopriamo, attraverso l’articolo di Eugenio Susi pubblicato nel Volume Secondo dell’opera “Montalto di Castro, Storia del Territorio”, la chiesa di San Sisto.

«Le particolari caratteristiche della chiesa di San Sisto, frutto di un “progetto edilizio solenne ed impegnativo”, non possono che rimandare ad una committenza autorevole e facoltosa, identificabile, con il ceto dirigente del Comune di Montalto, costituito da intraprendenti mercanti che già da tempo sono “pienamente inseriti nel contesto del sistema commerciale tirrenico-ligure”. Ed è appena il caso di osservare che la Comunità montaltese, in vista dell’eventuale erezione di un siffatto luogo di culto, avrebbe potuto senz’altro contare sulle cospicue rendite dei propri porti, in quell’epoca talmente elevate da permetterne la cessione della quarta parte al potente Comune di Viterbo, che a sua volta doveva verosimilmente offrire ai Montaltesi, considerati dai Viterbesi quali veri e propri concittadini, una più che probabile protezione politico-militare. E ciò potrebbe ben spiegare anche la singolare intitolazione del luogo di culto montaltese, analoga a quella dell’omonima, e ben più antica, collegiata viterbese. Non è pertanto improbabile che, in una siffatta congiuntura – sostanzialmente coincidente con il momento di maggior espansione economica, urbanistica e demografica di Montalto – il Comune possa aver avvertito l’esigenza di dare inizio alla costruzione di una nuova grande chiesa, la quale, potesse incarnare, mediante la sua imponenza, la prosperità del Comune, e al tempo stesso sancire, attraverso l’altrimenti assai poco chiara dedicazione a San Sisto, il suo rapporto privilegiato con Viterbo. Il cantiere della nuova chiesa venne a collocarsi proprio in Terravecchia, che allora, come dimostra la più o meno coeva erezione del convento di San Francesco, doveva costituire la principale direttrice dell’incipiente, quanto effimero sviluppo urbanistico di Montalto, resta comunque da chiedersi se negli anni posti a cavaliere della metà del XIII secolo, il circuito delle mura di Montalto non comprendesse anche “quel luogo che ora è borgo, che si chiama Terravecchia, quale anticamente era murato, e si conoscono benissimo le vestigia”, In tal caso, si potrebbe ipotizzare che il borgo di Terravecchia, contraddistinto dalla presenza di vari luoghi di culto fosse allora compreso all’interno di un circuito murario ben più ampio di quello attuale.»

Da convento a ospedale dei poveri
San Sisto oggi gode di un giardino, nel piccolo uliveto adiacente all’edificio. Un luogo di pace e raccoglimento. Non conosciamo l’anno di arrivo dei frati agostiniani, sappiamo però – con certezza – che alla fine del Cinquecento Montalto stava vivendo una nuova fase di splendore.
Siamo al tempo dei Farnese e il nostro territorio rappresentava l’unico affaccio sul mare del Ducato di Castro: fiorente area di produzione, zona franca, scalo commerciale. Sappiamo che in questi anni giunsero i frati di Sant’Agostino e che fu nuovamente il Comune ad occuparsi dei lavori di adattamento e restauro.
Ancora una volta si fece appello alla naturale vocazione commerciale del territorio per mettere sul tavolo i denari necessari all’opera: attraverso una tassa “su tutti li grani che s’imbarcano qui in questa nostra spiaggia e così assegnare quell’entrate alla Fabrica della Chiesa di San Sisto”.
La visita pastorale del 1703, poco prima della trasformazione del convento in ospedale, ci restituisce preziose informazione sull’interno della Chiesa del Convento. Altare maggiore dedicato all’Ascensione di Cristo. Tre altari laterali dedicati: a Santa Lucia; a Sant’Antonio Abate; al Santissimo Crocefisso. Ma, era a fianco dell’altare maggiore, che si trovava il culto più emblematico: ornato di colonne e impreziosito da una tela, infatti, in un piccolo altare si venerava l’effige di santa Monica: la madre di Sant’Agostino d’Ippona, patrona delle donne sposate, delle madri e delle vedove che – nell’attesa di tornare nella natia Africa – si ammalò di malaria e morì, a Ostia nell’Agro Romano non molto distante da qui.
E di vedove purtroppo Montalto ne ospitò molte, come innumerevoli furono i malati e i morti a causa della malattia che, ancora oggi, è una delle principali causa di morte al mondo, quasi mezzo milione l’anno: la malaria. Una malattia endemica che ha un formidabile complice: la povertà.
“L’aria bbona sta nel pignatto” dicevano gli anziani del paese ma nei primi anni del Settecento di piatti vuoti a Montalto ce n’erano molti… i tempi buoni erano finiti. Serpeggiava, in quell’anno, una terribile infezione nell’Ospedale dentro le mura di Montalto, e così il governatore ordina di pulire e restaurare i letti; di lavare e spurgare le lenzuola, esporre all’aria i materassi, di far raschiare le muraglie; insomma di sanificare ma questo doveva essere fatto in fretta, prima del principio dell’estate quando gli infermi aumentano per la malignità di quell’aria e per l’arrivo dei poveri tra i poveri: i lavoratori stagionali.
C’era bisogno di aria buona a Montalto e di acqua buona: non c’era né l’una né l’altra. Invece c’erano circa 200 cittadini spauriti da un’influenza che mieteva vittime e un ospedale che non era in grado di accogliere né i poveri né i lavoratori stagionali che erano quasi 2000.
Leggiamo alcuni estratti dell’articolo di Laura Romeo, gli interventi edilizi del cardinale Giuseppe Renato Imperiali
Chirografo di Clemente XI, anno 1706: «Avendo il Reverendissimo Cardinal Imperiali Prefetto della Congregazione del Buon Governo visitati i luoghi della mia Provincia del Patrimonio ci ha riferito il miserabile stato nel quale si trovano gli abitanti delle nostra Terra di Montalto, come anche i lavoratori, e pastori di quel territorio, non solo a causa della pessima aria, ma anche perché nel Paese non vi è che una piccola Stanza ad Uso di Ospedale con pochi letti […] e che quelli miserabbili popoli per mancanza d’acqua buona, sono obbligati bever l’acqua del fiume Fiora tartarosa e fangosa e per andare a lavorare le spaziose campagne situate di la da detto fiume gli convenga nell’estate passare a guazzo […] e nell’inverno, […], passarlo con picciola barca […] e senza provvedere alli suddetti inconvenienti i Popoli di quella terra diminuiranno con probabile desolazione della medesima e le campagne rimarranno in buona parte incolte che, perciò, convenga provedere detto Ospedale capace con qualche assegnamento necessario per li poveri infermi, come ancora di acqua salubre e del ponte.»
Fu così che San Sisto divenne l’ospedale dei poveri e dei lavoratori stagionali e fu così che venne costruita la fontana del Mascherone.
San Sisto ha ospitato pensieri, lamenti, preghiere. Ha visto nascite e dipartite: donne e uomini lo hanno nutrito e imbevuto di questa materia dolorosa e densa. Lui ha accompagnato e assistito tutti e non ha dimenticato nessuno. Eccoci alla fine di questo viaggio, quindi, con una formidabile eredità e non possiamo che dirigerla verso il futuro.
San Sisto ha ancora un ben visibile campanile ed è ancora un luogo sacro. Custode della memoria, cura dello spirito, palestra di pensieri. Oggi aspetta nuova vita che rianimi e dia forza allo spirito del luogo.
La biblioteca è un luogo carico di energia in potenza. Aspetta solo di essere risvegliato.
