di Francesca Niccoli

Aldo Morelli nacque a Montalto di Castro il 25 gennaio del 1931 in quel borghetto a lui tanto caro chiamato Terravecchia; lì visse per tutta la vita nella vecchia casa paterna sulla piazzetta, che decise di chiamare arbitrariamente P.zza Domenico Tiburzi, in omaggio al noto brigante della Maremma.
Non è retorica dire che Aldo era una persona speciale, tutto il paese conosceva per il suo vivere “alternativo” e per le sue stravaganze.
Fu maestro di scuola elementare quando le avverse situazioni socio-politiche lo obbligarono ad esiliare nelle più remote scuole rurali della Maremma laziale, in difficili condizioni logistiche ed igienico-sanitarie.
Ma la passione per l’insegnamento, l’amore che nutriva per i bambini più disagiati, la tenacia ed il suo grande orgoglio, lo spinsero avanti, fino a quando generazioni e generazioni di montaltesi riconobbero in Aldo un maestro “diverso, con una marcia in più” al quale si rivolgevano per lezioni avanzate di greco, latino e materie letterarie.
In cambio non chiedeva niente, per lui era un piacere lo studio ed il ripasso di certi argomenti.
I suoi “alunni extra”, io e mio fratello compresi, lo ringraziavano semplicemente con una bottiglia di olio, di vino o con una crostata.
Quando, circa 10 anni fa, con mio marito acquistammo una porzione della vecchia casa sulla piazzetta, avemmo il privilegio di diventare “i vicini di casa” del Maestro (così lo chiamavamo tutti in paese).
Le nostre abitazioni erano divise da un piccolo pianerottolo ed è proprio lì che spesso ci fermavamo a chiacchierare anche per ore, di qualsiasi cosa, proprio come si fa con un coetaneo. La mente di Aldo era talmente aperta al dialogo che i nostri 40 anni di differenza erano soltanto un piccolo dettaglio.
Aldo aveva avuto una vita intensa, non facile, ma ricca di ricordi da rivivere e raccontare, rapiva tanti dei miei pomeriggi: la sua infanzia vissuta in una famiglia agiata, la malaria, i dolori familiari, le difficoltà durante il 2° conflitto mondiale, i suoi intrecci amorosi, la sua attiva vita politica, le merende con gli amici, la scelta di restare single, il suo amore per il vino buono.
Il nostro rapporto di vicinato iniziò così: mi recai a casa di Aldo in un pomeriggio dell’estate ’98 per discutere sull’acquisto del “pezzo di casa vecchia”. Lui si sarebbe trattenuto “il pezzo di casa nuova” (così mi disse).
La stanza della “casa nuova” dove mi accolse era la stessa di tanti anni prima, dove avevo ricevuto lezioni di grammatica: quattro pareti annerite dal fumo di una piccola stufa a legna, tutte di colore diverso tra loro: gialla, rosso mattone, azzurra e bianca, completamente rivestite di libri impilati disordinatamente in esili scaffalature; ne rimasi sorpresa, sembrava che il tempo non fosse passato.
Naturalmente mi offrì del vino, che io rifiutai in quanto astemia. Mi guardò preoccupato e con la sua “erre moscia”, che tanto lo caratterizzava, mi disse – “France’ non capisci niente, te perdi il sole della vita!”.
Più avanti quando i lavori di ristrutturazione finirono e noi ci trasferimmo nel “pezzo di casa vecchia”, scoprimmo le abitudini bizzarre del Maestro: si alzava alle tre di mattina, perché soffriva d’insonnia, mangiava pane e marmellata ed usciva di casa con il suo inseparabile bastone di crognolo, girovagava ovunque, coperto da uno strato di vecchi abiti di lana, sia d’estate che d’inverno, come fosse un barbone (diceva che lo proteggevano dall’umidità notturna).
Tornava a casa verso le ore 7,30 con i quotidiani sottobraccio, si faceva la doccia e si vestiva da principe indossando begli abiti disordinatamente organizzati (così gli dicevo) e bellissimi cappelli.
Il suo profumo, misto all’odore della carta dei quotidiani e dei suoi vecchi libri, inondava quotidianamente il nostro soggiorno.
Passava il resto della giornata leggendo, dando lezioni a ragazzi di liceo e laureandi e quando era di cattivo umore cantava stornelli.
Per sua scelta non aveva il televisore e non andava dal barbiere, i capelli ricci ed arruffati, se lo riteneva necessario, li tagliava da sé.
Era un pessimo cuoco, riusciva a bruciare anche la “pasta in bianco”. Per sua fortuna era spesso invitato a casa di amici.
Capitava che tornando a casa dal lavoro, sentivo odori raccapriccianti nell’angusto vano scala. Allora lo chiamavo – “Mae’, ma che hai cotto oggi?” E lui apriva la porta di casa e ridendo a squarciagola, era anche capace di dirmi – “Ho bruciato il sugo col merluzzo, la colpa è de Vissani, m’ha dato la ricetta sbajata!”.
Ricordo un Natale, quando la sua malattia lo aveva ormai privato di bere anche un solo bicchiere di vino. Per sdrammatizzare, mio marito ed io gli regalammo 12 bicchieri da tavola con su scritto “ACQUA” a grossi caratteri; li guardò, lesse e con un’espressione mista tra gioia e rassegnazione ci disse – “Vi Odio!!”.
Abbiamo vissuto sei anni accanto al Maestro; la sua morte, che nei momenti di sconforto desiderava avvenisse presto, a noi ha lasciato un grande vuoto: niente più passi pesanti sulle scale, niente più odori nauseabondi di cibo bruciato, niente più stornelli, né profumo misto all’odore di carta di vecchi libri.

Oggi nel “suo pezzo di casa nuova”, sulla Piazzetta Domenico Tiburzi, al secolo Largo Terravecchia, c’è il nostro soggiorno, dove, dentro un’otre di terracotta, primeggia il suo bastone di crognolo.
Francesca Niccoli
Montalto di Castro, 1 maggio 2007

“piazzetta
DOMENICO TIBURZI
(detto Demenichino)
BRIGANTE (1836 – 1896)
per ricordare una pagina disperata della nostra storia.”